A suscitare echi della realtà, nell’opera di Claudio Lecci, sono gli orizzonti del Tavoliere e certi interni garganici: coste e campi. Ma si tratta di assonanze, pretesti, contrasti, controluce che affiorano nella memoria, anche di chi li interpreta -come me- nel ricordo di anni lontani. Sono orizzonti scenografici che innestano paesaggio e forme, rilievi di ombra e luce. Qualche oggetto sa di note musicali, come si trattasse di un pentagramma di linee che sfiorano la sensibilità cromatica di un artista che osserva e memorizza sinuosità e curvature di terreni e di cieli come fossero volti, nomi , attributi umani.
Guardate i terreni elaborati: hanno la stessa partitura delle marine e delle volte solari. Solo in proporzione sono diversi: il cielo, in Claudio Lecci, predomina, ha un sopravvento di rapporto, pur nell’estremo nitore, nella “pulizia “ tematica che apre all’infinitezza del colorito del pastello respirato, quasi a documento dell’animo. Una staccionata, un muretto a secco, un lembo di campo sono base, assai spesso, di un tramonto o di un’alba che si distendono nella stratosfera dell’altrovità senza limiti. In taluni pezzi l’osservazione e la partecipazione del sole o della luna, ad esempio, sono rese dal dominio ultraterreno della natura. Su fondali e approdi marini sembra che arrivi un Ulisse proveniente dal tempo. La ricerca di infiniti spazi, in Lecci, si fa materia di spirito e spirito di materia. La pittura, allora, è un richiamo alla riflessione, al colloquio con se stesso, in cui la realtà accede al linguaggio dello spazio. Persino la linea d’orizzonte diviene sparti-materia tra la quotidianità e l’universo. L’effetto mnemonico ha il suo peso, come una carica interiore che non dà tregua. La pittura di Lecci è rispetto della natura: l’eco e la logica si amalgamano, si uniformano in una ecologia senza enfasi e con fermezza di risultati.
L’artista foggiano analizza la partizione del campo pittorico-visivo sempre nel rapporto tra luce e materia, attraverso il colore modellato sulle forme. I ritmi cromatici incalzano e lasciano riflessi su chi li osserva, su chi ha dimestichezza con le problematiche dell’uomo moderno. E su chi, come me, ha il ricordo di quei cieli e di quel territorio di quelle atmosfere e di quel clima culturale che restano fondamento e struttura di un’esistenza, ben al di là della provincia e della regione.
Claudio Lecci offre la possibilità di superare i confini geografici. Si immette e ti immette nella raggiera della memoria e dell’ultravedenza che si fa vita nella distanza degli anni.
Elio Filippo Accrocca
Sintesi
Oltre il muro, prima del mare.
Oscillazione della memoria capricciosa
appena liberata dai vapori di un ruscello all’alba
quando all’aria restituisce il ghiaccio della notte.
Un’intera notte passata in treno prima di raggiungere la frontiera.
Vapori a piccoli banchi
come i cappellini bianchi dei bambini della colonia
che a luglio scendono al mare.
Sussulti della memoria incantata
sui vetri smerigliati della piccola veranda
della casa in Puglia
ove ponevo ad asciugare le tempere
sui chiodi che contendevo a mia madre
che li aveva destinati a mazzetti di origano, peperoncini ed agli
nei tempi di abbondanza e di caldo.
O dietro il finestrino appannato
che appena mi restituisce
qualche linea del volto stanco
tra le fredde luci al neon del metrò
che squarcia il ventre della città
alla fine di un giorno
tra polvere d’archivi e pandette di cancelleria.
E quanto assomiglio a mio padre
che moriva lentamente
appena carezzato dalla mano
di mia madre che diceva: -sta finendo, sta finendo-.
E sto finendo anch’io
oltre il muro prima del mare.
Stiamo finendo, stiamo passando tutti
come meschini dittatori in cerca di sbocchi al mare
rubando nidi caldi a bimbi prematuri.
Sangue e morte
lingue di fuoco fino al cielo plumbeo di petrolio
come grandi falò di donne
sulla via nuova per Marcianise
tra spettrali pennacchi blu della Polizia
o le metalliche maestrie dei Generali computerizzati.
Come stiamo passando! Quanto stiamo morendo!
Specialmente voi che non conoscete
lo studio del mio Maestro
profumato dai libri freschi di stampa
e lui, senza luce
lui che ha fatto da luce a tanti di noi
quieto come sempre
sotto il ritratto nello studio grande.
Me ne sono tornato a casa
dopo il tempo della neve alpina
e gli amici ancora chiamano per dirmi che
il Col di Tenda è chiuso al transito
come il Maresciallo a dicembre
con il telegramma di routine
che faceva sobbalzare telescrivente e parquet
e con esso il mio letto militare
ove aggrumivo ammirato fiochi raggi di lampioni della passeggiata al bosco.
Dardi che attraversavano le tapparelle
e stampavano strane ombre cinesi
sul muro intriso di noia
tra lo stillicidio del rubinetto
ed il salto del fiume che levigava pietre ed amarezze.
O come la luce dell’occhio magico
della radio a valvole
della mia infanzia che lasciavo accesa
perché mamma credesse ch’io fossi in casa
e saltare nel giardino
e con mio fratello portare secchi d’acqua
agli elefanti del circo in cambio di due posti nell’ultima fila.
Oltre il muro, prima del mare
tra le argentee fronde degli olivastri
chini alla brezza dell’Adriatico
per me che non so ancora quanti anni abbia
perché conto solo quelli che mi restano
nel perdermi tra veli impalpabili
di cobalto e un po’ di alizarina
tra Tremiti e Peschici
onda dopo onda, quali mattoni di casa mia.
E non si vedevano le Diomede
quando Pianosa appariva come piccolo
e irraggiungibile ritaglio di collage
di qua della dalmata terra.
E al ritorno l’impertinenza dell’acqua
sbavò onde indiscrete della barca rossa
mentre ebbro di colori
avrei voluto portarvi tutti nella mia notte
liberati da incubi
quando chiudo la scatola di pastelli ad olio
mentre le mie bimbe, già da tanto
sognano oro nelle felici culle.
E c’è chi, stasera, chiude il tour Bologna
mentre a me, puntualmente
di fronte allo studio, tutte le mattine
le gazze vengono a chiedere qualche briciola.
Ma se davvero la terra gira e danza del sistema
consumando esistenze teorie
fagocitando case e montagne
schivando meteore tollerando anatemi
menzogne e discorsi politici
se davvero Padre Pio è Santo
ed i Questori saranno trasferiti
se a Natale
Germano tornerà a montare la grande giostra
nello spiazzo oltre la chiesa di San Ciro
se i cancelli si chiuderanno ancora
con gran stridore di catene
tra sbuffi odorosi di caffè bollenti
nel cortile del Palazzo di Giustizia
e nelle notti di primavera
ci toccheremo tutti le mani
mentre i giornalisti telefoneranno sul portatile
per sapere le novità prima di chiudere la pagina
con l’ultimo intervento dei Verdi
sui cessi buttati in periferia
tra siringhe e penne di galline sgozzate
come docenti non di ruolo
in fila sotto il Provveditorato
se il grande nespolo è l’unico essere
rimasto a fare compagnia fissa a mia madre
che vuoi che resti di questa mia malinconia
quando i fiori vermigli scoppieranno tra le pale dei fichidindia
oltre il muro, prima del mare?
Siate serene, bimbe mie, quando con trepido timore
io stesso vi porterò per mano
fino ad una cabina telefonica
in attesa del primo palpito d’amore…
tanto c’è poco tempo ancora
per staccare gli ultimi petali
della margherita di una gioventù
mai vissuta appieno per via dell’urgente opportunità
di approdare ad una laurea che doveva servire
per diventare qualcuno che potesse contare
e non fosse stato lì a perdere il suo tempo
oltre il muro, prima del mare
assorto nell’odore intenso
dell’origano e della mentuccia
mentre la terra rossa di bauxite ti urla dentro
vibrazioni accorate più del murmure
di una conchiglia all’orecchio sordo di cerume
e bimbi scanzonati e dispettosi pisciano a riva
sul castello di sabbia del bagnino con la collana di corallo.
E anche per te resto, comunque, ancora un po’
su questa riva benedetta
che placa le mie ansie
cancella il male patito
che scivola come salsedine sotto la doccia
mentre già sento le tue dita carezzarmi
le punte dei capelli come le mie mani
che lavano i pennelli
di un’azzurra e fugace illusione.
Claudio Lecci
- Galleria IL CASTELLO via Brera, Milano-